Non si uccide per amore – Lo scrive Rosa Teruzzi e io le credo

Vi ricordate le tre donne del casello? Tre generazioni dello stesso sangue che almeno ad un primo incontro, non potrebbero essere più diverse. Iole è una figlia dei fiori con una certa avversione per la biancheria intima, grazie allo yoga e ad una mente molto aperta (non in senso ironico ma reale), dei suoi settant’anni se ne sente addosso almeno 40 in meno. Libera omen nomen nella mente di Jole, in realtà è cresciuta in realtà con dei “valori” un po’ diversi, più tradizionali (anche se basati sulla assoluta libertà di tutti). Infine Vitttoria, dura e pura nei primi due romanzi, qui ci mostra che in fondo la genetica non è un’opinione. Per farvi un breve ma breve riassunto, il marito di Libera e padre di Vittoria, è stato ucciso. Era un poliziotto e sia pure non in azione, la pallottola fatale è stata sparata da qualcuno che doveva incontrare per un’indagine. Qualcuno che gli aveva dato appuntamento con un biglietto, qualcuno che ha tradito. L’istinto “poliziesco” di Libera – vedi volumi precedenti – questa volta è spinto dalla necessità di capire chi sia il traditore, lo deve capire per fare pace con se stessa e riprendere la sua vita, andare finalmente oltre perchè no, anche con un nuovo amore. Rosa Teruzzi riesce ancora a portare avanti una storia senza banalizzarla, le tre donne prendono contorni diversi e come quasi sempre accade, i tratti dell’una si intersecano con quelli dell’altra prendendo ciascuna quello che manca. Iole sempre mantenendo la sua apparente svagatezza ha delle ottime idee e supporta Libera che a sua volta sembra prendere un po’ della pazzia della madre e Vittoria, bè, Vittoria fa un po’ storia a se sorprendendo tutti. Quello che sembrava partire come una cosa conclusiva, apre in realtà la strada a tante nuove e presumibilmente interessanti svolte. Quanto al titolo, perchè non è che siano messi a caso, potrebbe far pensare ad un qualche riferimento al femminicidio (tema che ormai si tende ad infilare ovunque) e invece la sciura Teruzzi, che nella Nera ci vive tutti i giorni, ci presenta la questione sotto tutt’altra luce. Sapete che non è mia abitudine gridare al miracolo e ai capolavori, ma di sicuro questo giallo è scritto bene, proprio nel senso che l’autrice sa scrivere, con una trama molto ma molto ben pensata e con il consueto garbo che è cifra di Rosa.

Mio caro serial Killer – Ti (DE)scrivo così mi distraggo un po’

L’abbiamo letta nelle ormai mitiche raccolte a tema di Sellerio, ma un romanzo tutto intero mancava da un po’. A memoria credo un lustro poco più poco meno; Alicia Gimenez Bartlett ci regala una Petra Delicado che personalmente ho trovato un po’ cambiata, in meglio se posso dire la mia (e voglio vedere chi ha il coraggio dire che non posso).
La trama lo sapete già che non sto a raccontarvela, vi dico giusto che per la prima volta, come forse si evince dal titolo, l’ispettore Delicado si trova ad affrontare un serial killer. Lo fa ovviamente con il fido Fermìn Garzòn e l’ingerenza, o almeno così la vivono inizialmente, di un giovane ispettore dei Mossos, tale Roberto Fraile. Vuoi perchè in qualche modo l’ispettore prende il comando della situazione, vuoi che si sente spodestata da un uomo con almeno una ventina d’anni meno di lei e che per giunta adotta la tecnica dei profiler, che contrasta con il buon vecchio metodo a cui lei e Garzon sono abituati, vuoi che l’idea di un serial killer la disturba molto più di un semplice assassino, le indagini partono quasi con un muro contro muro. Sarà la tecnica di Roberto che si fa portare gli hamburger in ufficio, e spulcia nei computers e nei tabulati o saranno le intuizioni della coppia Delgado- Garzon, che perlopiù arrivano fra una tapas e una birretta, a dare la svolta? Questo ve lo scoprite da soli.
Io nel frattempo vi racconto di questa donna che improvvisamente vede nello specchio una cinquantenne con la sua faccia e si chiede se sia un incantesimo malefico o cosa. A questa ignobile scoperta, Petra reagisce con insolita leggerezza, concedendosi una benefica sosta al centro estetico. L’ho trovata cambiata dicevo, nonostante il caso sia parecchio tosto (ma si sa che la Bartlett, un donnino delizioso e dolcissimo, può raccontare cose trucissime), a dispetto di quello scherzo crudele giocatole dallo specchio, è come alleggerita, per carità, non che sia mai stata pesante, ma ha sempre avuto, o almeno io ce l’ho sempre trovata, una certa severità che qui ho percepito mitigata. Le schermaglie verbali con Garzòn, forse per reazione all’invasore che sembra essere tutto d’un pezzo, mi sono sembrate più simili a sciabolate che a duelli in punta di fioretto. Mi è parso che anche il rapporto familiare abbia beneficiato di questa maturazione (perchè poi alla fine di questo eventualmente si tratta), certo che anche la suocera e i figli vogliano partecipare alle indagini e quasi ci riescano, non mi pare fosse mai successo. Se non lo avete ancora fatto leggetelo, se potete venite al Salone per ascoltarla di persona, in ogni caso godetevela perchè autrici che scrivono ottimi gialli, facendoci anche ridere e pensare, non ce ne sono poi tantissime.

Commedia nera n° 2 – Recami ci porta alla Clinica Riposo & Pace

Che ridere faccia bene non è una novità, ben lo sanno gli inglesi che dello humor, quello nero in special modo, hanno fatto una bandiera. Ma Recami con l’Inghilterra cosa c’entra vi chiederete, assolutamente niente, però mi serviva l’aggancio per arrivare alla Clinica dal nome evocativo, in cui la nipote e il marito, portano lo zio, Alfio Pallini, sostenendo che è impossibile da gestire. Che sia vero o meno è un dubbio che ci si porta fino all’ultima pagina, insieme al dubbio che, come crede fermamente il vecchietto (oddio un quintale di roba è dura da pensare come vecchietto, ma insomma), lo abbiano portato in un posto dove agli anziani viene praticata entro poche settimane rigorosamente fatta passare per naturale, la dolce morte. Però come dice Recami, le sue sono nere ma commedie, quindi sì, si ride molto perchè l’arguzia toscana salta fuori ad ogni riga, c’è il gusto per la “parolaccia” (mai volgare), un po’ come i bambini che ridono parlando di cacca, c’è l’immedesimazione col povero Alfio, che se da un lato ne combina di ogni, anche belle toste, dall’altro ci convince o almeno ci fa sorgere forte il dubbio come dicevo, che lo vogliano effettivamente far fuori.
Già dai tempi della Casa di ringhiera, ve lo ricordate sì il Consonni e suoi vicini, Recami ha mostrato la sua cifra, assolutamente singolare eppur comune ai Magnifici 6/7/8 insomma i noiristi giallisti pubblicati da Sellerio (che cosa volete che vi dica, saran le copertine blu, ma io li adoro), Gialli o come in questo caso noir (sia pur commedia), perfetti, ma con tanta tanta ironia. Quel che succede – forse – alla Clinica Riposo & Pace, potremmo leggerlo su un qualsiasi giornale di un giorno qualsiasi, cose tremende raccontate in maniera paradossale, esasperando toni e situazioni. D’altra parte, gli autori di classe, colgono l’aria che tira e ne fanno delle Storie. Unico difetto, purtroppo piuttosto comune negli autori che mi piacciono, loro ci impiegano un anno a scriverli e io in mezza giornata li finisco.

Sara al tramonto – ancora e sempre un de Giovanni che sorprende

Le donne dell’universo deGiovannesco sono tante e tutte diverse una dall’altra. Abbiamo iniziato conoscendo Enrica, una specie di Beatrice dei giorni nostri, pronta ad accompagnare Ricciardi all’inferno senza esitazioni, Tata Rosa, una mamma universale, una di quelle donne capaci di amare incondizionatamente e di difendere i loro cuccioli con la vita. La fatale Livia, ritratto di una donna che non sa accettare un no, pagandone anche le pesanti conseguenze. Bianca, l’amica fragile che al bisogno diventa un sostegno indistruttibile e prezioso. Figure che abbiamo poi ritrovato nella realtà di oggi, l’inflessibile Piras la dolce Ottavia la fragile Alex la materna Letizia. E ancora le figure “femminili” de I Guardiani (che fra parentesi spero tornino presto), che hanno una valenza universale nella contrapposizione Bene/Male. Mancava forse quella che in qualche modo le riassume tutte.
Sara Morozzi è una donna come tante, “un’anziana” signora delle migliaia che popolano le strade i giardinetti delle nostre città, una di quelle che non vedi perché vai di fretta perché è grigia e si confonde fra le ombre della sera con gli angoli dei muri. Una figura invisibile per sua stessa scelta. Ha imparato a sembrare quello che non è nei lunghi anni in cui è stata in polizia, non di pattuglia no, Sara faceva parte dei Servizi, quelli che sappiamo esistere ma non appaiono mai, che hanno catalogato e archiviato migliaia e migliaia di informazioni su chiunque per le ragioni più svariate. Sara è rimasta invisibile ma non per la sua squadra che ha ancora bisogno di lei. Per quelle cose che non si devono sapere, che non esistono e forse tornare alla vita restando nell’ombra, è proprio quello di cui ha bisogno. Come le altre che ho nominato prima, ha pagato ogni suo gesto e sappiamo bene che la crudeltà con cui la vita presenta il conto è superiore a qualunque immaginazione. Attenzione però, se dalla descrizione può sembrare un noir cupo, in realtà come sempre succede, de Giovanni spezza le atmosfere inevitabilmente tese, affiancando dei comprimari con cui a tratti ci si fanno anche delle belle risate, per conferma chiedere di Davide e Boris.
E Napoli vi chiederete, presenza viva quasi come una persona in ogni romanzo? Napoli c’è, non più personaggio, ma quieto sfondo. E infine qualcosa che a mia memoria appare per la prima volta nei suoi lavori, un sentimento che non appartiene al de Giovanni che conosciamo, va da sè che non vi dico di cosa si tratta ma sarà palese e abbastanza sconcertante quando arriverete a fine romanzo. Con questo primo episodio, deGio ci lascia intuire le diversissime evoluzioni che potrà avere Sara e che al momento affidate di sicuro, note forse, solo alla smisurata fantasia del mago. Insomma non c’è moltissimo da dire se non che la storia di Sara è l’ennesimo colpo da maestro di un autore che ormai ci ha abituati alle letture a 5 stelle. Ah, questa nuova collana NeroRizzoli è decisamente da tenere d’occhio.

Se la notte ti cerca –

Quante cose è la musica, è un rifugio è una consolazione un’amica che ti fa compagnia o ti ricorda il passato, che siano momenti tristi o felici. Anche chi suona in certi casi può diventare le stesse cose, un rifugio la consolazione di una notte o la piacevole illusione che quelle parole le stia cantando proprio per te. (Prova ne sia che intorno ai 3/4 anni ero sicurissima di essere il grande amore di Massimo Ranieri). Vabbè stavamo dicendo, la musica poi a volte è anche protagonista suo malgrado di romanzi davvero molto belli, come nel caso di Se la notte ti cerca, l’ultima fatica di Romano De Marco. Ha coniugato un bel giallo (dove bel significa che la trama è originale, regge ed è scritta come Romano sa fare, alternando qualche picco di adrenalina a deduzioni e investigazioni tradizionali. Giustamente mi potreste dire, sì ma tutta quella pappardella sulla musica cosa c’entra? C’entra perchè a legare le vittime che frequentavano tutte lo stesso locale per single, è un musicista, Andy Lovato, che poi esiste nella realtà e di chiama Danny Losito, e se non sapete chi è sarà il caso che studiate perchè avete una grave lacuna. Come da standard, il musicista è l’uomo per una notte, come la sua musica, lui diventa l’antidoto alla solitudine, perchè l’unico vero killer è proprio la solitudine. Qui al link secondo me, Romano De Marco ve lo spiega meglio di come ho fatto io.